-Scritti-

Se tu dovessi cercare bene tra le righe, allora troverai un messaggio in codice, insomma le cose che spudoratamente non ti ho detto. Che ti amo, ad esempio. Non l’ho detto, non lo dirò mai, nè te l’ho accennato lungo questa vita, neanche fra cent anni quando tu vecchio e gobbo mi passerai dinanzi, ed io gobba almeno la metà ti sorriderò con un sorrisetto rugoso, il maglione elegante, la collana di perle. Non ti nascondo nulla, è che la mia è una forma di vigliaccheria nobile, austera, muta. E’ quando inizio un libro e non trovo il coraggio di finirlo, perchè poi mi mancherebbe, allo stesso modo non ho mai finito dolcemente le cose tra di noi con quelle due parole strozzate. Non finisce e non inizia, non si esaurisce, nè mi brucia. Perdona la mia bugia, e impara a leggere tra gli spazi delle parole, sul puntino della ”i” messo mezzo storto, sulle lettere rovesciate, ingarbugliate, cadute, spente. Trovaci un rimedio, trovaci una verità. Gli spazi lasciano il vuoto che va colmato coi fatti. Se tu sarai abile sarai il più grande dei faccendieri, condottiero del mio cuore. Assali questa barca, denuda il mio cuore, la mia coscienza.

Prendo a pugni questa lettera, domani te la consegnerò, forse.
Non troverai nessuna verità consistente, ma chiedimi se hai coraggio
cos’è che avrei voluto dirti.
Ci vediamo domani al pontile della città, tra le carcasse delle stelle che arrivano, e la carne mangiata di un sole che è andato.

 

E di mille viole io vivrei,
di rose e spine, resisto agli urti,
di prati verdi come i tuoi occhi,
di rose rosse come le tue labbra,
di bianco petalo vergini sogni,
di viola pallido i tuoi dettagli.

Primavera riarsa dentro un inverno accartocciato.

 

 

Asteria era una donna bellissima, saggia, leader del suo regno possente. Mito il suo cavallo di sempre era entusiasta per la guerra imminente, continuava ad agitarsi, mentre la sua padrona tirava le briglie all’indietro nel tentativo di prender tempo, quando fu sicura che la guerra fosse iniziata diede un leggero colpo di frusta, benevolo, al suo cavallo nero. Mito iniziò una galoppata disperata, risalendo il colle con tenacia. Le amazzoni stavano già rischiando ogni cosa, qualcuna giaceva al suolo con la spada conficcata nel petto, qualcun altra combatteva senza ritegno contro uomini feroci. Asteria si dileguava tra morti e feriti, tra uomini e donne intenti a lottare. Mito sentiva la forza della sua padrona attraverso il suo modo di essergli in groppa, si sentiva carico, forzuto, con la sua galoppata la portò fino a destinazione, faccia a faccia con Sarasse, un uomo ormai cinquantenne logorato dal tempo, dalla gelosia, dalla mancata possessione su quella giovane regina di guerra. Si guardarono negli occhi per qualche secondo, poi la spada di Asteria colpì senza pensarci la spalla dell’uomo, un graffio profondo permise al sangue di sgorgare dalla carne del nemico.
“Dopo tutti questi anni colpisci con forza l’uomo che per te darebbe ogni cosa, ingrata!”
“Ingrata è colei che desidera tutto, che datogli, rifiuta, schernisce, annulla.”
“Vorresti dire che tu non mi hai mai desiderato?”
“No. Come desiderare morte e carestia per il mio popolo.”
“Bugie, menti mia cara amata.”
“Mento a voi come mento a mia madre. Mi capite?”

Solo immaginato.

Ho levigato il mare 
con i tuoi capricci
son stata zitta quando
dovevo parlare
e mi son detta zitta zitta
sotto il sole
io ancora ridendo
l’amore non fa male.

Ho detto basta ai miei giorni bui
legata al niente di tutti i miei guai
restando ferma a punto incasinato
dove tutto cambia e io non son cambiato

E senza remi contro un mare in tempesta
con quattro sogni dentro la testa
e quante volte ho gridato resta
alla sanità mentale, a quello che ho da amare
Solo rovi dentro un bosco in festa
il lupo nero ancora mi cerca
non ho parole amare da dire ancora
sotto le dita solo lenzuola

Credere che la fine sia di qua,
dietro l’angolo, ogni spigolo,
nella bocca mia diventata tua,
credere che la notte sosti qua,
dentro ogni bugia, dentro casa mia,
solo un mare già passato, amato.

Ho salutato gente
che credevo mia,
buche di fuoco sotto un temporale,
e mi son detta zitta zitta
con il cuore
io ancora piangendo
l’amore fa scoppiare

Ho mangiato delusioni a colazione
macchiato in nero le parole tue,
un gregge disperato che attendeva me
solo che cadessi, solo che morissi.
E gli occhi neri che attendevano un finale,
solo un casino, silenzio che fa male
e ogni parola detta e rimangiata
attende una poesia ancora mai spedita.

Credere che la fine sia di qua,
dietro l’angolo, ogni spigolo,
nella bocca mia diventata tua,
credere che la notte sosti qua,
dentro ogni bugia, dentro casa mia,
solo un mare già passato, amato.
Fingere che la musica 
sia l’antidoto ad ogni spigolo
ferite che cantano ancora.

E senza remi contro un mare in tempesta
con quattro sogni dentro la testa
e quante volte ho gridato resta
alla sanità mentale, a quello che ho da amare
Solo rovi dentro un bosco in festa
il lupo nero ancora mi cerca
non ho parole amare da dire ancora
sotto le dita solo lenzuola

E ADESSO CHE IL DOLORE TACE
E NULLA SEMBRA SPENTO,
LA GIOSTRA HA SMESSO DI GIRARE
MA UN GIRO ANCORA INSIEME, CI CONTO
SE PENDE DALLA LUNA UN SOGNO INCASINATO
SARA’ LA VOLTA BUONA,

HO SOLO IMMAGINATO

La casa

E’ assurdo pensare che dentro queste mura ci sia del sangue secco, si la nostra casa l’abbiamo proprio conquistata cosi, io un po’ meno dato che non esistevo ancora, o meglio ero in un’altra dimensione, e lasciare anche quella di casa, rotonda e piccola da pulire mi ha fatto stare male, adesso di meno perché non la ricordo più la pancia di mamma. Ma la mia casa si, la ricordo bene, nei minimi dettagli perché la amo, e credo che l’amerò sempre, che il pensiero di doverla lasciare mi rattrista in un modo quasi disumano. Non le capisco le persone che partono e vanno via senza timori, la casa è casa, le origini sono importanti, ed è anche vero che se non ci si trova bene bisogna andar via, io però non ho tutto questo coraggio, questo piccolo nido è il palcoscenico della mia esistenza. E’ una casa modesta, non vi aspettate nulla di speciale, la prima cosa che noti sono i balconi messi a nuovo ma non troppo, abito al quinto piano e tutto ciò che vedo dall’alto forse visto dalla strada sembrerebbe più grande. C’è un viottolo che porta a tutte le stanze, e tutte hanno in comune il fatto di essere grandi e pulite. Sono pulite al di là delle pulizie giornaliere, queste stanze lo sono perché sono aperte e sono giovani ma piene di esperienza. La mia stanza poi è graziosa, vecchio stile, con le mensole di legno duro e mille oggettini da spolverare, un letto attaccato al muro, tre quadri messi in linea e un balconcino che affaccia sulla strada più trafficata del paese. Il tetto di casa mia è solo due metri più in alto, sulla testa della signora che abita un piano sopra di me. Immagino sia stanco di tutta la pioggia che cola sulla sua testa, e del sole d’estate che martella i suoi occhi arrossati e la sua bocca asciutta. La mia casa è speciale, perché è sempre stata lì, è sempre stata nostra e mia ancora prima di conoscerla, ho mosso i miei primi passi, qui dentro ho detto la mia prima parola, ho gridato, fatto cose sbagliate, amato, abbracciato persone, baciato delle altre, sono cresciuta e ancora cresco, e lei è lì a guardarmi, e spesso a proteggermi come una madre premurosa e un padre geloso. Lei è qui attaccata a Napoli, ride, sorseggia i nostri caffè, ci ascolta parlare, e forse è molto stanca anche dei nostri sacrifici e delle nostre rinunce, ma se potesse parlare, immagino che la sua prima parola sarebbe “non andare via.”

Non sapeva amare.

Voglio  un’ isola deserta, e un punto in mezzo al niente, e voglio che nessuno si preoccupi di me, che non ci siano lacrime nel raccontare la mia storia, voglio vivere attaccata ad un’ amaca, masticare l’aria fresca che da spintoni a quella calda, e avere mille vizi, iniziare a fumare a bocca aperta, mordicchiarmi le labbra prima di dire qualcosa, e sentirmi viva anche senza correre fino al punto in cui si cade. Sono già caduta troppo, e adesso intendo avere indietro un equilibrio, e intendo essere diversa, e una margherita che resiste ad un inverno rigido, la prima neve che arriva senza preoccupare. Voglio possedere la bellezza dei suoi fiocchi, e il rumore assordante di una canzone rock. Ho perso di vista la mia vita, e ho amato più che potevo cose che non mi posso permettere, sono stata sciocca e buona a non finire, tanto da risultare ridicola anche a me stessa. Mi sono imbevuta di sentimenti troppo stretti e ho partecipato alla mensa di chi era lì solo a guardare e non a capire cosa realmente mi stesse accadendo. C’è che poi ho perso ogni forza, e insieme ad essa anche la qualsiasi voglia di dire o fare. Una parola era troppo, e due invece mi sembravano anche poche, una canzone era da malditesta e quella dopo una strage di lacrime. E’ troppo presto per amare, forse adesso l’ho capito. Non si da un tempo alle cose, non può esserci una cadenza temporale dei sentimenti, ma se ancora sento le sbarre graffiarmi la schiena e ridurmi a cosa forse dovrei restare sola, e anche la solitudine imparerà ad essermi amica. Non mi farà più paura, e se un giorno dovrò pagare lo scotto di aver allontanato tutti allora lo pagherò senza fiatare. Ho sempre richiesto il conto delle cose che avevo consumato, ovunque mi trovassi non ho mai lasciato debiti alle spalle, anche a costo di gridare, piangere o ridurmi a niente. C’è chi nasce pronto a correre forte, a diventare campione di qualcosa, re di un posto lontanissimo, martire o sordo, o ricco, prepotente, silenzioso. Chi invece nasce non-pronto per questo genere di cose. Io non so amare in modo continuo e duraturo, forse un tempo quando nessuno aveva profanato il mio cuore ne sono stata capace. Adesso è solo un ricordo che fa frastuono nella testa, che non si placa, non si spegne, e a volte non si fa neppure sentire, come un bimbo non nato che non ha mai aperto gli occhi.

goodbye 2013

Credo che ogni anno finisca coi botti perché ogni anno che va via intende far rumore. Perché il rumore accende i silenzi che ci siamo portati dentro, e schianta ogni perplessità. Io amo i fuochi d’artificio perché ammazzano il buio, e a me il buio spaventa molto soprattutto se non sei tu a tenermi per mano. Amo guardare i colori, e le piccole particelle arcobaleno che scoppiano in aria. Ogni anno è diverso, e questo forse è stato più difficile e contorto degli altri. Tranne per parentesi dolcissime, undici giorni, undici favole, ognuna diversa a modo suo. E se dovessi spiegare cos’è che ho fatto e cosa ho detto, chi ho incontrato in questi 365 giorni vi mentirei, perché sarei capace solo di raccontarvi bugie, un po’ perché preferisco tenere i miei segreti solo miei, e un po’ perché effettivamente non ricordo. Avrei tante cose da cambiare, ma soprattutto due sono le cose che più vorrei. Vorrei che i miei genitori siano felici davvero, e poi vorrei che questa sera io non fossi sola, vorrei che ci fossi tu accanto a me, come proprio lo scorso anno, che abbattevi ogni tristezza, e tiravi fuori il buono di me. Quello che posso raccontarvi quindi di quest’anno che va via è che sono stata veramente felice, anche solo per un attimo. Punto ad una felicità costante, punto all’infinito, ad un anno senza paure, senza ansie, un anno di sani cambiamenti, di salite meravigliose, di compagnia altrettanto sensazionale. Punto ad un anno che non sia facilmente dimenticabile. Quindi è a voi spettatori della mia vita, amici, punti fermi, sconosciuti, ambigue parole dietro ad un monitor, che regalo i miei auguri.

Direttive.

Un vecchio filosofo diceva che noi tutti siamo anime vaganti, e prati incolti, e fioriture acerbe, e che a volte capita di scambiarci di posto, come le mine di un terriccio in guerra, e che noi prendiamo il posto di qualcuno e quel qualcuno prende il nostro posto. Pensavo fossero solo filosofie matte e sconclusionate.

Niente albero.

Niente albero quest’anno, siamo troppo affaccendati tra una moribonda e le nostre angosce esistenziali. Siamo una famiglia che si regge in piedi su piedi sottili e traballanti. Ci facciamo carico di spese economiche inimmaginabili, e cerchiamo di non spegnerci, come in molti fanno. Mi manca vedere quell’alberello nel mio salone, mi faceva sentire più allegra, anche se da cinque anni l’allegria è davvero difficile da trovare. Forse quest’anno neppure Lei riuscirà a venire a trovarmi, lo scorso anno abbiamo passato le feste insieme, ero Felice. Credo che questo sia stato un brutto anno tranne la nostra parentesi, la scuola è finita ormai da due anni, ed io non trovo uno straccio di lavoro. Credo di poter fare qualcosa in questo grande mondo, scrivere non lo so, forse un giorno, al momento mi accontenterei di non essere così insoddisfacente. Mi accorgo di essere infantile, lo sono molto, da fare schifo. Come posso pensare di volere un albero anche in circostanze tristi e difficili? Eppure lo vorrei. Ho sempre fatto affidamento sul mio albero di Natale, lo allestivo con cura, nei minimi particolari, mio padre metteva a posto i rami da montare ed io facevo il resto, poi a causa della mia scarsa coordinazione per le lucine chiedevo aiuto a mia madre, precisa e clinica. Voglio il mio fottuto albero di Natale. E lo voglio perché mi metteva allegria, mi faceva stare bene perché non mi faceva pensare a quante cose sono cambiate da dieci anni a questa parte, mi faceva sentire piccola e protetta, e in pace col mondo. Adoro le palline di Natale, i loro colori, la loro perfezione. E adesso c’è un salone vuoto, e una casa ancora più vuota. Perché tutti si godono la loro felicità mentre a noi tocca sempre la parte peggiore? Che sciocca che sono. Eppure adesso mi toccherà aspettare il prossimo anno. Il mio alberello si starà chiedendo perché mai non è già qui, forse si sentirà sostituito. Ti sbagli, è solo che quest’anno siamo tristi, e tu non puoi venire in casa nostra. Voglio un anno pazzesco. Voglio poter realizzare la mia vita, o almeno iniziare a farlo, voglio un fottuto lavoro perché voglio avere la possibilità di costruirmi un futuro. Quando posso dico a tutti che il Natale è importante, che anche uno stupido albero, un ornamento in rosso, una cena poco più elaborata significa qualcosa, certo non è la materialità che ci da la felicità, ma se non iniziamo da Fuori come possiamo arrivare al Dentro? Quando si sta male occorre prima sistemare le ferite, e poi prendere la medicina. Quindi se potete curatevi, e state insieme. Se avete una famiglia restateci, e passate le feste insieme a loro, per quanto siano burberi, diversi, casinisti, cercate di chiudere gli occhi e apprezzare il buono. Odio la mia stanza con quest’assurdo fiocco rosso sul lampadario, l’ho messo stesso io, e me ne sono già pentita, mi sento incompleta e stupida, e questo sarà un cattivo Natale. E’ molto tempo che non ricevo un regalo, non mi importa, non mi serve, certo se mi recapitate una reflex non la getto nel pattume, ma al momento sto zitta. Se a gennaio trovo un lavoro aiuto mio padre e poi appena posso la compro. Giuro che la compro. Mi sentirò così sola. Non ha senso, nulla ha senso. Buon Natale a tutti. Non mi va di augurarmi cose belle come puntualmente si fa nei resoconti, tanto le cose belle arriveranno da sole se dovranno arrivare, non hanno bisogno di un fischio o di un pacco regali.

Arida non muore

Grondante di sudore e morte
ti sei lasciato amare,
senza dir nulla al mondo,
ho prosciugato i sensi,
e le ossa ho lasciato intatte
per permetterti di scappare.
Che se gioco con la tua fuga
allora resto sveglio e lesto,
che se ti raggiungo senza sforzarmi
hai già fatto la tua corsa.
Disseto l’anima arida
che arida vive, e arida non muore,
incastrata nell’eterno gioviale
di un sorriso perfetto.

Mi sei dentro come solo una stella inesplosa riesce a stare,
un turbine di parole non dette,
di mille che ti ho raccontato quando già dormivi,
a te ho affidato il cuore mezzo rotto,
il sangue che mi porto dentro,
quello che resta dopo gli addii.
A te che sei una droga,un’ abitudine malsana,
un’ orgia di emozioni,di bocche sporche di neve,
di pugni soffici come carezze.
A te che sotto la pelle resisti,
e mi attraversi l’intermezzo del cuore,
tra le costole e il dolore di chi scalcia,
nella gioia di resistere alla tua turbolenza.
Scorrimi dentro come lava cocente di un vulcano in fiamme,
e muorimi dentro se la vita riuscirà a mancarti.

Scrivo.

Scrivo anche se mio padre continua a ripetermi ogni volta che può, che scrivere di cose inesistenti è inutile, che forse se proprio voglio dovrei darmi al giornalismo. Io lo ignoro, non per mancanza d’affetto, ma perchè se smettessi di scrivere credo che un po’ morirei, e la mia esistenza sarebbe una delle tante, una presa a caso, nel mazzo, lontana dai jolly, lontana dall’idea brillante che intendo dare a me stessa. Quando scrivo brillo, e brillo di una luce che non può che essere buona, vicina, calda, morbida. Tutti aggettivi che riguardano cose belle, ed io intendo esserlo. Scrivo perchè è giusto, perchè scrivere da un nome alle cose, da un nome anche a me stessa, e divento la Kuntz, divento una mezza donna che tiene una penna tra le dita come un pennello, che dipinge cose straordinarie, cose di una bellezza latente, cose nascoste che solo quelli che sentono ma ascoltano pure, riescono a capire. Scrivo perchè sono in possesso di una chiave invisibile, che tengo sotto la costola, che tiro fuori solo quando ho bisogno di vomitare pensieri, di straparlare, anzi di imbrattare fogli. Scrivendo sono libera, e di libertà riesco a camminare. Scrivendo respiro sott acqua, e mi tengo a galla quando ci sarebbe da crollare, riacquisto un equilibrio speciale fatto di schiaffi e carezze, e me ne sto nel mio angolino buono, nel mio mezzo metro sperando che il mondo prima e presto possa essere mio, anche solo per metà.